La signora seduta di fronte a noi ha una settantina d’anni. È immersa nella lettura. I capelli bianchi, ben curati, scendono dritti dritti fino alle sue spalle, senza toccarle. Un fermaglio argentato divide la sua capigliatura sulla sinistra. Mi meraviglio: quel fermaglio sembra essere proprio fuori luogo per una persona così composta e semplice. Pare uno di quegli oggettini usati dalle parrucchiere per fermare i bigodini alle clienti. Non riesco a immaginarla con i bigodini. Lei, adesso, non legge più il quotidiano offerto gentilmente sui treni ad alta velocità, per colpa di mia figlia che ha catturato tutta la sua attenzione. La seduce e ne è consapevole, nonostante i suoi pochi mesi. Si sorridono.
Da quando è nata, ho ammirato con stupefazione la sua capacità di piacere a tutti. La capacità che, del resto, possiedono pressoché tutti i bambini, quelli che non danno molto fastidio piangendo. Mia figlia non lo fa quasi mai in compagnia degli estranei, anzi. Sorride ogni volta che qualcuno la guarda e i suoi occhi chiari ipnotizzano gli sconosciuti. Mia moglie e io ci siamo abituati. C’è chi ci rivolge qualche parola, chi ci chiede qualcosa su di lei ma, perlopiù, la guardano e dialogano con i sorrisi. Io mi distraggo per un attimo, perché mi viene in mente una scena insolita. Immaginiamo che tutti i passeggeri, il controllore pure, si mettessero a sorridersi, così come lo fanno la signora e mia figlia. Che tutti comunicassero tramite quel sorriso molto espressivo, accompagnato da finti baci e da smorfie. Che cosa buffa!
Comincio a sorridere anche io, immerso in quella situazione immaginata, ma il sorriso ammaliante della mia bimba mi fa scendere dalle nuvole. Sul tavolino che ci divide ci sono i nostri libri, qualche giocattolo di Milena e la borsa della nostra compagna di viaggio. Milena è tra le mie braccia, non ha sonno, niente da fare. Dopo una toccata e fuga a Bologna, stiamo viaggiando verso Vicenza per un mio convegno e abbiamo deciso di partire insieme e approfittare di un weekend lungo, il primo da quando è nata la nostra creatura. Non ci sono mai stato in Veneto. Anzi, se scarto qualche viaggio a Milano, Torino e Bologna, non ho mai esplorato il nord dell’Italia, il Paese che mi fa da matrigna patria da ben venticinque anni. E mentre io faccio il conto del tempo che ho passato qui, da studente a Roma e da medico a Bari, mia figlia fa uno di quei suoi ruttini più forti, sporcando un po’ la borsa della signora. Lei, ovviamente, non reagisce e cerca di calmare il nostro evidente imbarazzo. Milena osserva attentamente tutta la scena come se fosse davvero curiosa di sapere se abbia provocato qualcosa di male. Mentre mia moglie fruga nella borsa per prendere le salviettine e pulire tutto quanto, io calmo la piccola parlandole, come sempre, in serbo. È la nostra intesa: mia moglie le parla in italiano e io nella mia madrelingua, in modo tale che lei possa assimilarle entrambe. Durante la dolce attesa abbiamo letto una marea di articoli scientifici dove si parla del privilegio che hanno i bambini nati in una famiglia bilingue. Il privilegio che avrebbe il loro cervello, soprattutto, essendo stimolato a reagire in due idiomi diversi. Ciò nonostante, la vera ragione per la quale le parlo in serbo, nascosta dentro di me, è un’altra. Anche se, ormai, vado raramente nella mia patria, sarei terrificato se immaginassi mia figlia lì, a non capire nulla, a essere una completa estranea.
«Ah! Non siete italiani? Da dove venite?», la signora ha finalmente reagito. Le spiego che soltanto io non sono italiano (o che, forse, lo sono grazie al possesso della cittadinanza italiana da più di dieci anni), ma che ci tengo a insegnare la mia madrelingua a mia figlia italo-serba. (O serbo-italiana?) Lei annuisce con la testa a mo’ di approvazione, sorride, il suo sguardo è quello di una certa compassione nei miei confronti e io sento che le mie guance stanno diventando sempre più rosse. Ho sempre odiato lasciar capire la mia provenienza, ovvero la mia non italianità. Non per la vergogna nei confronti delle mie origini, anzi. Solo per paura di essere giudicato, perché non sai mai davanti a chi ti trovi, davanti a un uomo libero o davanti a uno ‘addottrinato’, come mi piace chiamare tutti coloro che sono privi del pensiero critico, ma che mi giudicano. Di cosa? Di essere uno di quei serbi che hanno commesso tutti i possibili crimini del mondo, ovunque si trovino. Di essere uno di quei serbi che hanno meritato di essere bombardati, sfollati, considerati uomini-bestie. Per questa ragione, ancora da studente, quando i pregiudizi verso il mio popolo erano più attuali che mai, avevo iniziato a esercitare il mio accento italiano. Si trattava di veri e propri allenamenti. Ogni volta che mi trovavo da solo, parlavo con me stesso ad alta voce, pronunciando le vocali con esagerazione, abituando la mia bocca ad aprirsi o a chiudersi di più o di meno in base alla parola data, sforzando le mie labbra e la mia lingua ad avere più dimestichezza con alcuni suoni, esistenti in tutte le lingue del mondo, ma pronunciati in un modo leggermente diverso. Se non ero sicuro di dove cadesse l’accento, aprivo il mio dizionario, oggetto dal quale non mi separavo mai. Studiavo la medicina, ma diventavo un massimo esperto della fonetica italiana. E se, all’inizio spesso ma poi sempre meno, accadeva di essere riconosciuto come uno di quelli che i greci intendevano per ‘barbari’, io passavo le notti insonni per capire quale parola mi avesse tradito, ripetendo tra me e me tutta la conversazione svolta. Un’emozione opposta veniva suscitata se, dopo aver parlato con qualcuno, le mie origini spuntavano non dalla pronuncia, ma da non so dove (magari dal contenuto del discorso stesso o da qualcuno che mi presentava come un amico serbo). Allora ero oggetto di ammirazione: «Non avrei mai detto, parli meglio di tanti Italiani!». Sì, so di parlare la vostra lingua meglio di tanti italiani però, adesso, parlando con mia figlia sto fregando me stesso. Tutte le mie paure combattute per anni. L’ansia di essere giudicato e di non essere valutato per quello che valgo, per quello che sono in grado di fare, per quello che le mie radici sono veramente. Oltre a questi due tipi di emozioni suscitate, ne esisteva un terzo. Accadeva quando non si capiva nemmeno che io fossi straniero. Quando passavo per un italiano originale. Allora, oltre a essere dispiaciuto per la mancata stima nei confronti delle mie competenze linguistiche, sentivo anche un dolore. La lontananza dalla mia terra, dalla mia famiglia. Mi chiedevo come avrebbero reagito loro se avessero saputo che la gente ignorava il sangue balcanico del noto medico. Ecco, forse più che un esperto di fonetica e di medicina, sono sempre e da sempre stato un grande specialista di viaggi mentali, dei ‘se’ ipotetici e delle conseguenze, spesso, nemmeno realizzabili. Una lunga serie di questi ‘se’ ha preceduto anche la decisione di parlare in serbo con Milena, grazie, soprattutto, a mia moglie Ilaria. Ha sempre amato la Serbia, la mia famiglia, l’odore dei Balcani in me. Perciò si è impegnata da sola e riesce (meno male!) a capire e a farsi capire con i miei familiari. È stata lei a insistere che Milena dovesse conoscere le lingue di entrambi i genitori. Con questo motivo è riuscita a vincere me e le mie paure, mi ha incoraggiato a mettere a nudo la mia identità davanti a chissà chi. Ed è quello che è appena successo.
Dopo aver spiegato alla signora in breve (ormai, in un italiano impeccabile sotto tutti i punti di vista) la nostra situazione linguistica e l’approccio genitoriale, continuo a chiacchierare con Milena, con la mia Lenka, mentre lei mi sorride e mi guarda con quegli occhioni presi dalla madre. Chissà se le entra in testa qualcosa di quello che le dico, dai suoni che ascolta. Lei continua a ridere e noi stiamo per arrivare a Vicenza. Salutiamo Anna (solo alla fine del viaggio ci siamo presentati e abbiamo saputo il suo nome), raccogliamo mille cose che ti porti con te quando hai una neonata e scendiamo.
Nonostante sia aprile inoltrato, sembra che la primavera non abbia ancora salutato questa città veneta. Travolti dal freddo che ci arriva addosso, ci infiliamo frettolosamente nel primo taxi che troviamo davanti alla stazione e ci dirigiamo verso l’albergo. Attraverso il vetro della vettura osservo le strade, i volti delle persone, le insegne sopra i negozi. Gioco a quel vecchio gioco, scoperto nel mio paesino d’infanzia, pochi giorni dopo aver imparato a leggere: il gioco consisteva nel leggere prima la scritta appesa all’ingresso di un esercizio commerciale per poi indovinare di che cosa si trattava (panificio, macelleria, negozio di generi alimentari, ristorante, sartoria, bar, ecc.). La cosa diventava ancora più divertente quando mi trovavo in macchina, da passeggero. Allora ero costretto a reagire in modo rapidissimo, la fantasia doveva rispondere subito all’occhio che poi doveva anche accertarsi se l’immaginazione fosse giusta. La stessa cosa capita anche adesso: mentre mia moglie bada a Milena, i miei occhi saltano da “Felicità”, “Sfizio”, “Luogo comune”, “Xing Ja”, “Briciole”, “Ciao ciao”, “Prodotti dell’Ex-Yu”, “Gioia”… Che cosa?! Mi giro indietro e, per fortuna, la macchina si ferma al semaforo rosso e io, incuriosito, osservo il negozio alle mie spalle con la stella rossa sull’insegna dai colori ormai cicatrizzati nel mio cuore: rosso, blu, bianco. Ciò mi fa confondere le idee perché questi colori sono quelli della bandiera serba, mentre il tricolore jugoslavo aveva un altro ordine: blu, bianco, rosso. Ovviamente, con la stella rossa in centro, illuminata da un bordino giallo. Mai visto un tale negozio in Italia. Sapevo che i prodotti tipici serbi potessero essere facilmente reperiti al Nord, ma non ho mai avuto occasione di trovarmi davanti a uno di essi. Guardo Ilaria e mi assicuro che lei non abbia notato il negozietto, avendo gli occhi girati da tutt’altra parte. Altrimenti mi toccherebbe andarci per forza insieme a lei, forse scendere dal taxi proprio in quell’istante.
(Continua.)
Racconto pubblicato sul n° 40 di “incroci – semestrale di letteratura e altre scritture” (Adda Editore, Bari)
Anvur: rivista scientifica di Area 10 (Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche)