Appartenenza (2° parte)

Ilaria ha sempre cercato di avvicinarmi alle mie origini quanto più possibile. A volte il suo fare era invadente e si scontrava con le mie dinamiche interiori. Per esempio, farmi conoscere la gente che parlava la mia lingua «per non essere isolato», come diceva lei. Trа l’altro, la gente che nemmeno lei conosceva, ma della quale, in qualche modo, aveva sentito parlare. Magari la cognata croata o il cognato montenegrino oppure bosniaco di una sua collega. Quindi, non dovevano essere per forza serbi, ma di madrelingua serbo-croata, o serba, o croata, chi lo sa più. Qualche volta ho pure acconsentito e mi sono presentato a un totale sconosciuto con il quale avrei dovuto avere qualcosa in comune e trovare quella scintilla che ci unisse. Timido quale sono sempre stato, non ci riuscivo. Allora era Ilaria a organizzare uno degli appuntamenti successivi dove avremmo gustato i nostri piatti tipici, parlando di quello che abbiamo lasciato, ridicolizzando gli italiani in qualche modo (il più delle volte per il loro rapporto ossessivo con la digestione e la salute in generale).

Quando, una volta, le avevo chiesto il perché di tutti questi incontri combinati, spiegandole che parlare la stessa lingua non significava doversi per forza piacere e sentirsi vicini, lei si era messa a piangere. Mi aveva confessato che, nel profondo del cuore, si sentiva responsabile per la mia scelta. Io avrei potuto benissimo trovare un lavoro in Serbia dopo essermi laureato. Nel mio Paese sarei stato considerato come un medico specializzato all’estero, sarei stato accolto con onore e rispetto. In Italia ho sempre dovuto dimostrare, dimostrare, dimostrare. Oltre a dimostrare, passare giornate intere davanti alla questura più volte all’anno, e ho dovuto superare più esami di lingua, di cultura, sottopormi all’esame del barista, della cassiera, del giudice del giorno. In Serbia avrei potuto lavorare in un grande ospedale di Belgrado, oppure in quello di Niš per essere ancora più vicino ai miei genitori che non avevano nessun’altro tranne me. Però io avevo conosciuto Ilaria e non immaginavo più la mia vita altrove, lei era il mio porto sicuro, il baricentro della mia gravità. Portarla in Serbia negli anni Novanta sarebbe stata una pazzia. Più che altro, lei mi avrebbe lasciato dopo un mese, era quello che temevo. E quindi, per paura di perderla, avevo accettato un destino che non mi immaginavo e rinunciato al mio sogno: assorbire tutti i saperi disponibili per usarli al servizio della mia patria, essere uno dei pediatri preferiti dai bambini in Serbia e – perché nasconderlo? – essere l’orgoglio più grande dei miei genitori che per anni avevano sofferto la fame affinché io potessi concludere i miei studi a Roma.

Chiederete: e perché proprio a Roma? perché non ti sei laureato nella tua Serbia? Eh, perché… Perché era andata così. Dovevo iscrivermi all’Università durante gli anni più feroci della guerra in Bosnia. Il Governo italiano aveva offerto una borsa di studio agli studenti liceali più meritevoli e, avendo una guerra affianco, i miei non ci avevano pensato due volte. Anche se la borsa di studio non bastava per coprire nemmeno un terzo di tutte le spese alle quali ero esposto, in qualche modo ci ero riuscito. Ci eravamo riusciti. Mia madre, insegnante, dopo il lavoro correva nei campi e nell’orto per poter vendere nei fine settimana al mercato tutto quello che raccoglieva. Mio padre lavorava in fabbrica e, di notte, faceva un lavoro nero nell’officina dei suoi parenti. Per quanto riguarda le mie notti, studiavo e li pensavo, mentre ogni volta che avevo un giorno meno impegnativo del solito, davo una mano in un cantiere vicino allo studentato dove abitavo. All’ultimo anno dell’Università avevo conosciuto Ilaria, così vicina col cuore al mio Paese che io non ne capivo il perché. Diceva che, semplicemente, aveva sempre avuto un debole per i Balcani, soprattutto per la Serbia. E io l’amavo per questo, forse. D’altro canto, a volte pensavo tra me e me che lei dei Balcani non potesse capire un bel niente e che quell’‘anima slava’, tanto esaltata dagli amanti della letteratura soprattutto russa, qualora fosse esistita veramente, poteva essere capita solo da un’anima slava, appunto. Tuttavia, vedevo in lei una donna diversa, una donna che non avrebbe mai fatto emergere la mia ‘estraneità’, e così era stato.

Ilaria, la ragazza dai capelli ricci e castani e dagli occhi azzurri, dal sorriso incantevole e dallo sguardo convincente, mi aveva accolto, dapprima, come un amico che portava con sé un certo esotismo non troppo lontano, per lei affascinante. Mentre studiavo per la tesi, dormivo quasi sempre da lei. Lei si era laureata un anno prima e lavorava come insegnante di russo in una scuola privata. Ovviamente, la sua ottima conoscenza del russo l’aveva aiutata a imparare anche il serbo senza molta fatica ma, chissà perché, insieme non l’abbiamo usato quasi mai. Era una lingua inesistente nella nostra quotidianità. Adesso, rimuginandoci su, penso che, nel mio intimo, io volessi che il serbo rimanesse una cosa solo mia e di nessun altro in Italia. Il serbo era quella magia di parole che mi scaldava il cuore ogni volta che parlavo con i miei genitori, quando andavo a trovarli. Il mio serbo era quel dialetto della mia regione, tanto ridicolizzato dai difensori di quella lingua altezzosa, chiamata standard. Il mio serbo era colorato da errori grammaticali commessi dai contadini che conoscevo, era cullato dai monti e accarezzato dal sole. Parlare quella lingua con Ilaria non suscitava nessuna magia. Anzi, la trovavo meno bella pronunciata da lei che non era madrelingua. E mi convincevo, non so nemmeno perché, che solo il mio popolo fosse davvero capace di fingere perfettamente in una lingua straniera, così come facevo anche io, ormai da anni. E non ero un caso isolato. Per noi, cosiddetti ‘slavi’, era una normalità ricevere i complimenti per le nostre competenze linguistiche o, forse, imitatorie.

Naturalmente, apprezzavo lo sforzo di mia moglie e in silenzio la ringraziavo ogni volta che ci trovavamo nel mio paesino in Serbia, quasi al confine con la Bulgaria. Lì non avrei mai sopportato di dover parlare in italiano, ma esclusivamente nel mio dialetto. Ilaria non conosceva il dialetto (ci mancherebbe altro!), ma il serbo bastava. In questo modo io non mi sentivo troppo straniero e troppo traditore a casa, tra i miei. E lì ritrovavo le mie vedute limitate, proprie dell’uomo balcanico, così legato alle radici, così pieno di tante paure che in apparenza cerca di nascondere. Paura di non essere all’altezza della patria. Paura di non essere in grado di combattere. Paura di non essere in grado di procreare. Paura di non saper sopravvivere in natura, essere autosufficiente. E tante altre. Un forte formicolio nelle dita e il sudore sulle mani mi assillavano ogni volta che mi addentravo nel circolo vizioso dei timori. Tutto ciò aumentava se mi trovavo da solo con i miei fantasmi mentali.

Il formicolio e il sudore mi inondano anche adesso, mentre mi trovo davanti alla bottega chiamata “Prodotti dell’Ex-Yu”. Ho abbandonato il convegno dopo aver presentato la mia relazione, un po’ prima della pausa pranzo. Non potevo non farlo, ci ho pensato tutta la notte, elaborando il piano di come farlo senza Ilaria e senza Lenka che, come da accordi, mi avrebbero aspettato davanti all’Università alla conclusione dei lavori. Il formicolio si fa sentire sempre più insistente, ma non posso non entrarci. E finalmente lo faccio.

All’interno trovo una serie di prodotti alimentari che credevo fossero totalmente spariti dal mercato. In Serbia non li vedo da anni. Cammino nelle poche e strette corsie del negozio, osservo le lettere sui barattoli, i nomi dei produttori. I sottoli macedoni, il cioccolato croato, il burek surgelato di Sarajevo, il vino montenegrino, tanti prodotti serbi. Sembra che la «Ex-Yu» dell’insegna continui a esistere tra questi scaffali. E mentre mi giro verso il piccolo reparto di prodotti caseari, il mio sguardo cade immancabilmente su pirotski kačkavalj, su quel formaggio fatto da mia nonna, da mia madre, su quella delizia che prende il nome della mia città, Pirot. Ne prendo una caciotta per assicurarmi che provenga veramente da lì. Ed è proprio così. Rapidamente svuoto lo scaffale, deciso a comprare tutti i pezzi disponibili. La voglia di sentirne la fragranza è troppo forte. Non sono cosciente di poter sembrare un ladro, sinceramente un ladro un po’ maldestro, però intento a rubare tutti i formaggi, vista la velocità con la quale li prendo, senza chiedere nulla alla commessa. Ed ecco che lei mi si avvicina e mi chiede se veramente voglio comprare tutti quei formaggi. E lo fa con quell’accento radicato nelle mie viscere.

“Sì, li prendo tutti quanti. Quanto le devo?”. Mi guarda come se ci fosse qualcosa di strano. In effetti, se ci penso meglio, la sua reazione è del tutto normale. Sono io che mi comporto in modo anomalo. Dopo qualche minuto del reciproco scrutarsi, mi fa lo scontrino e imbusta tutti i formaggi. Mi chiede se voglio qualcos’altro, ma quello mi basta. Il pane del paese appena sfornato non può averne. Quindi, “basta così, grazie”. Prima di uscire, esito se chiederle qualche cosa su di lei, sulla nostra evidentemente identica provenienza ma, per timidezza, ci rinuncio. E così, mentre sto per varcare la soglia d’uscita, sento la sua voce:

“Non l’ho mai vista. Da quando vive qui? Anche lei è di Pirot?”.

“Sì, anche io. Vivo in Italia da un bel po’ di anni, ma non in questa città”.

“Ah, ho capito. Infatti, il mio negozio è uno dei più rari, se non l’unico che abbia il nostro formaggio. È stato fortunato a trovarmi. Appena lo assaggerà, si sentirà più vicino ai nostri. Ha fatto bene a prenderli tutti”, sorride come se volesse dare senso alla mia azione d’acquisto.

“E lei? È da tanto che è qui a vendere i prodotti della Ex-Jugoslavia?”.

“Io no, ma mio marito sì. Aveva aperto questo supermercato ancora prima di conoscermi. Lo sa bene, dalle parti nostre la situazione lavorativa è difficile, molto difficile. Qui, almeno, riusciamo a vendere. Di gente nostra ce n’è dappertutto. Di ex-jugoslavi che nel mio negozio non sono “ex”. Qui siamo tutti una famiglia. Come se mai nulla di brutto fosse successo”. Lo dice con orgoglio e nostalgia. Un bambino entra da un ingresso posteriore e le si rivolge chiamandola majka, ‘madre’. La ringrazio e la lascio con il piccolo.

(Continua.)

Racconto pubblicato sul n° 40 di “incroci – semestrale di letteratura e altre scritture” (Adda Editore, Bari)

Anvur: rivista scientifica di Area 10 (Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche)

Pubblicato da Milica Marinković

Zdravo! Mi chiamo Milica Marinković, sono nata e cresciuta in Serbia. Molto presto ho incominciato a esplorare culture nuove attraverso le loro lingue. Dapprima quella inglese, poi quella francese e finalmente quella italiana. Dulcis in fundo, direi, perché quest’ultima scelta ha avuto il maggior impatto sulla mia vita. Infatti, dopo aver conseguito la Laurea e il Master in Lingue e letterature romanze all’Università di Belgrado, mi sono trasferita in Italia, dove ho iniziato i miei studi di dottorato di ricerca. In Serbia ho avuto la fortuna di essere stata borsista statale e comunale per tutta la durata dei miei studi, in Italia ho ottenuto la Borsa di studio del Governo italiano, ma il 2014 mi ha vista vincitrice della prestigiosa borsa di studio canadese Bourse Gaston-Miron, offertami dall’Associazione Internazionale degli Studi Quebecchesi (AIEQ). Dopo essermi perfezionata in Canada come ricercatrice in Letteratura francofona, ho conseguito il titolo di Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Bari, anche se i miei studi e le mie ricerche non sono tutt’ora terminati. Infatti, mi ritengo un’eterna studentessa e ricercatrice e ciò si riflette sulle mie esperienze lavorative che richiedono continui approfondimenti ed evoluzioni. I miei ambiti professionali sono insegnamento, traduzione e scrittura. Subito dopo il diploma liceale ho iniziato a insegnare il francese ai più piccoli e allora ho capito che non avrei mai smesso di trasmettere le mie competenze agli altri. Ad oggi ho accumulato diverse esperienze come insegnante di francese, italiano e serbo, sia nella pubblica istruzione, nell’ambito universitario, aziendale e privato. Come traduttrice, oltre alla traduzione dei documenti, posso ritenermi orgogliosa di aver dato la voce italiana a uno dei maggiori scrittori della letteratura serba, Jovan Dučić, traducendo, insieme alla collega Valeria Uva, il suo capolavoro Città e chimere (Bari, Stilo Editrice 2015), così come a Vladan Matijević, uno dei più importanti scrittori contemporanei, traducendo il suo romanzo Lezioni di gioia (Lugo, WhiteFly Press 2015). Coltivo la mia passione per la scrittura in lingua italiana sia come autrice di romanzi (al mio attivo ci sono Piacere, Amelia, pubblicato nel 2016 dalla casa editrice barese Les Flâneurs Edizioni e In serbo, uscito nel 2019 sempre per i tipi de Les Flâneurs) e di diversi racconti, pubblicati su riviste e raccolte, come curatrice di varie antologie poetiche, come redattrice della rivista “incroci” (Bari, Adda Editore). E, naturalmente, come blogger di questo sito.

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