Mentre cammino verso l’Università, mi chiedo come nascondere il contenuto evidente della busta trasparente. Non trovo nessuna soluzione rapida e perciò decido di non andarci più. Ho bisogno di immergermi nella mia solitudine, nel mio universo. Vedo un parco vicino alla Facoltà dove si svolge il convegno e dove mi aspetterà Ilaria con Milena tra due ore. Mi siedo su una panchina isolata, apro con i denti la confezione del formaggio e, non avendo nessun coltello a disposizione, ne mordo un pezzo. Il sapore fragrante inonda i miei sensi. Il palato reagisce come se avesse trovato il gusto dimenticato del latte materno. Prima di ogni morso risponde l’olfatto. Le narici si aprono verso quell’ossigeno profumato, si riempiono di bontà. Mi tornano in mente tutte le volte che avevo assaporato quel formaggio all’aria aperta. O nel giardino, o nei campi con mio nonno, o durante la ricreazione, nel panino che mi portavo come merenda. E quello basta per scuotere per l’ennesima volta la mia mente.
Ho sbagliato a non tornare nel mio Paese? Se proprio non volevo lasciare l’Italia, non potevo trovarmi una moglie serba, creare una famiglia come l’hanno fatta i proprietari della bottega? Come crescerà mia figlia in un Paese dove vengono ribaltati tutti i concetti tradizionali della famiglia, da un lato, ma dall’altro ci sono quelli il cui concetto esistenziale si basa sull’idea “prima gli italiani”? Che identità sto riservando a mia figlia? Chi sarà? Lo saprà? Le importerà? Si vergognerà di non essere un’italiana pura o ne sarà fiera? Ma quante domande, cretino. Mangiati il tuo formaggio e non pensare a niente. Mentre cerco di concentrarmi su questa intenzione, il mio telefonino lascia un suono. Il messaggio da Ilaria: “Stiamo arrivando. Abbiamo una sorpresa per te.”
Oh, cavolo! Sono già passate due ore?! Eh, sì. E due etti e cinquanta di formaggio sono scesi nello stomaco, senza che me ne sia accorto. Li digerirò? Digerirò la mia vita una volta per sempre? Immagino di darmi uno schiaffo in faccia, mentre mi alzo per raggiungere l’ingresso della Facoltà, dove a breve incontrerò mia moglie e mia figlia. Con lo schiaffo immaginato mi prometto di non perdermi più nelle mie inutili divagazioni mentali. Non servono a nulla così come, probabilmente, non servirà a nulla nemmeno questa mia promessa. I miei genitori, del resto, non mi hanno mai rimproverato nulla. Nemmeno Ilaria. Qualsiasi altra donna al posto suo mi avrebbe mandato a quel paese tanti anni prima. Sì, a quel paese e, probabilmente, nel mio Paese. O no, forse sarei rimasto in Italia a prescindere. A chi appartengo e chi mi appartiene? Vuoi un altro schiaffo, questa volta uno vero? No, rispondo a me. Allora basta.
Scendo la scala e mi avvicino a loro due. Ilaria è radiosa.
“Andiamo in un parchetto. Ce n’è uno qui vicino, ti abbiamo aspettato lì. E questa busta? Omaggio al migliore relatore?”, me lo chiede scherzosamente e io non so che risposta le ho dato.
“D’accordo, andiamo al parchetto”, sorrido mentre ci incamminiamo verso quella stessa panchina, incuriosito dal suo atteggiamento particolarmente allegro ed eccitato.
“Sediamoci. Sai che Lena ha qualcosa da dirti?”.
“Che cosa? Beh, ah, prrrr? Che cosa, Lenka mia?”.
“Dai, amore! Dillo di nuovo!”.
La piccola sorride e mi guarda. Dalla bocca scivola giù la saliva, dagli occhi la gioia.
“Ta-ta! Ta-ta! Tataaa!”.
Non posso trattenere le mie lacrime, ma nemmeno Ilaria ci riesce. Mentre lei si complimenta con la figliola per la prima parola pronunciata, per il suo “papà” in serbo, io le abbraccio e piango. Ilaria mi dice che l’ha pronunciato all’improvviso mentre erano nel parco e mi confessa di essere stata così felice, più felice che se avesse detto “mamma” in italiano. Sapeva che valore avrebbe avuto per me. E io non riesco a smettere di abbracciarle e di baciarle. Quell’esserino mi ha chiamato perché, forse, mi ha visto nel parco mentre mangiavo il formaggio. Forse perché le mancavо. Ma di sicuro perché ero la sua famiglia. Mia figlia me l’ha insegnato, una volta per sempre con una sola parola. La famiglia eravamo noi con lei. Io e quella donna che quel pomeriggio era diventata mia più che qualsiasi altra. E che non volevo perdere per nessun motivo al mondo.
(Fine.)
Racconto pubblicato sul n° 40 di “incroci – semestrale di letteratura e altre scritture” (Adda Editore, Bari)
Anvur: rivista scientifica di Area 10 (Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche)